“In una figura, cercate la grande luce e la grande ombra, il resto verrà da sé.”
Èdouard Manet
Talvolta, per affrontare un argomento, risulta utile capovolgerne i concetti di base.
È certamente il caso della ripresa fotografica, della cosiddetta “scrittura con la luce”, che può darci gioie e dolori e, soprattutto, rischia di annoiarci ed annoiare a causa del surplus di informazioni visive.
Dunque, scriviamo con la luce. Magari con il cellulare o con un apparecchio usaegetta, o, ancora, con la più sofisticata delle digitali (se proprio non vogliamo usare una scatola con foro stenopeico): ma senza luce non si fa niente!
Benissimo. La domanda è: quanti fotografi più o meno esperti o “della domenica” si sono mai posti il problema del “dove” si scrive? E non mi sto riferendo a pellicole o sensori, ma della base reale sulla quale la luce è in grado di “scrivere” e restituire il simulacro del nostro soggetto.
Solo una persona estremamente timida (o – con maggiore probabilità – disturbata) scriverebbe una dichiarazione d’amore utilizzando inchiostro rosa su carta rosa (sì, quello del famoso “apostrofo” di rostandiana memoria[i]): un amore nato morto!
Lo stesso accadrebbe scrivendo in nero su un fondo nero, in bianco su bianco e via discorrendo.
Per farla breve: per scrivere con la luce è necessario il buio, ed è il buio a dare corpo e sostanza a quanto vogliamo rappresentare. È il buio a raccontare la storia, a dare libero sfogo all’immaginazione, a parlare (e magari cantare) con toni di voce sempre diversi a seconda di quale e quanta luce riesce ad incontrare, a farsi amica, se non addirittura complice o amante.
Il buio evoca mistero, magari paura, spesso tensione e tristezza. Il buio nasconde e, proprio per questo, è la sublimazione dello stimolo alla fantasia e alla creatività.
Osservate l’immagine che segue:
In essa si riconoscono certamente una vecchia porta, degli scalini, un manufatto di legno ed uno di pietra. Abbiamo l’idea di entrare in un ambiente che potrebbe essere una chiesa o qualcosa del genere.
L’incognita risiede nella grossa zona oscura, una zona d’ombra profonda, piena di quesiti irrisolti: c’è qualcuno nascosto nel buio o questo cela altre suppellettili che potrebbero aiutarci a meglio comprendere il carattere del luogo? E se per caso ci fosse una persona, questa sarebbe un pericoloso serial killer armato o un frate assorto in preghiera?
Sia chiaro che in questa sede non si pretenderà di voler interpretare il buio come unica sede dell’immaginario, ma semplicemente si vuole porre l’accento sulle infinite possibilità creative dell’oscurità quando raffrontata con le alte luci. E soprattutto si vuole sottolineare l’importanza della gradualità delle ombre, che aiuta a riconoscere altre ombre, più o meno “importanti”.
Lungi da me, ovviamente, voler affermare che la foto perfetta sia una foto completamente nera. Semplicemente, l’uso dei toni bassi rappresenta un valore aggiunto a quella che è la narrazione per immagini, senza per questo voler declassare in alcun modo le opere “high key”, che personalmente non amo in modo particolare, ma che certamente non sono prive di una loro forza espressiva.
Come sempre si tratta di una questione di gusti e ogni autore difenderà il proprio lavoro con argomentazioni di indiscussa validità. Come si sarà compreso, chi scrive preferisce i toni bassi, a patto di non abbandonarsi al “piattume”: per quanto “low” possa essere la “key”, non si deve in alcun modo rinunciare alla presenza della luce, cioè a zone anche minime nettamente bianche che diano rilievo all’opera.
Non è semplice e si può essere tentati dalla sottoesposizione tout court ottenendo un prodotto che nell’inintelligibilità dei vari gradi di grigio non è in grado di trasmettere nessun messaggio, tranne forse quello di una certa tristezza.
Come sempre bisogna tentare e osare, con la luce naturale o con quella artificiale, senza dimenticare che il digitale, in particolare, ci consente manipolazioni relativamente semplici che fino a pochi anni fa potevano essere ottenute solo con complicate manovre (e una grande professionalità) sotto la luce dell’ingranditore fotografico.
La parola d’ordine è “sperimentare”, magari cercando di valorizzare un’immagine apparentemente insignificante e “sciapa”.
Tentando e ritentando, il risultato, prima o poi, arriverà.
Come anche una grande soddisfazione…
[i] Ma poi che cos’è un bacio? Un giuramento fatto poco più da presso, un più preciso patto, una confessione che sigillar si vuole, un apostrofo rosa messo tra le parole “T’amo”; Un segreto detto sulla bocca, un istante d’infinito che ha il fruscio d’un’ape tra le piante, una comunione che ha gusto di fiore, un mezzo di potersi respirare un po’ il cuore e assaporarsi l’anima a fior di labbra.